Il figlio del killer, di soli 5 anni, si è salvato dalla furia del padre nascondendosi dietro il divano. Chi si prende cura delle piccole vittime di violenza domestica e perché lo Stato le dimentica
Come si sopravvive all’orrore compiuto in casa propria, tra i giocattoli e la cartella di scuola? Come si cresce, dopo una violenza così grande da risultare insostenibile (un padre che uccide una madre, o una sorella, o tutte e due)? Il “giorno dopo” del piccolo Matteo – chiameremo così, qui, il bimbo di 5 anni sopravvissuto miracolosamente alla strage di Foggia – è quello che nel nostro Paese ogni anno devono affrontare dai 100 ai 120 bambini o adolescenti che assistono a un femminicidio in casa, scampando alla morte. Uno ogni tre giorni.
Li chiamano “orfani speciali”, sono vittime anche loro, solo che continuano a respirare: uccisi, per sempre, dalla violenza a cui hanno dovuto assistere e che non hanno (non possono avere) gli strumenti per affrontare. Il numero che scriviamo è soltanto stimato, e probabilmente ampiamente sottostimato: non esiste un registro che tenga la contabilità di questo fenomeno, nonostante le associazioni che se ne occupano lo invochino da anni. Si procede artigianalmente incrociando il numero degli omicidi che riguardano donne (anche questo mai del tutto preciso, nonostante la Convenzione di Istanbul lo richieda), le informazioni fornite dai media, il calcolo fatto dall’ultima Commissione di inchiesta (che ne ha contati 169 nel biennio 2017-2018, coi limiti appena elencati).
Non esistono nemmeno linee guida nazionali di intervento (e di pronto intervento, come sarebbe doveroso e necessario) strutturate e istituzionalizzate: ci si affida alla buona volontà e alla eventuale preparazione di chi di volta in volta è chiamato a intervenire. In una parola, alla fortuna. Matteo l’ha avuta: i carabinieri che sono entrati per primi in casa, in mezzo a quello scempio, si sono accorti dei suoi singhiozzi dietro il divano. S’era nascosto lì, coi suoi 5 anni, quando ha capito che a seminare il terrore tra il pianerottolo e la cucina era proprio il suo papà. Lo stesso che nella fotografia che circola online in queste ore lo tiene sulle ginocchia, sorridendogli, a una festa di compleanno. Ed è stato zitto Matteo, fermo, persino quando quel diavolo s’è messo a riprendere tutto col cellulare, a urlare che lo stavo cercando, che voleva ammazzare anche lui.
I carabinieri, si diceva, l’hanno abbracciato, consolato, portato via (immaginiamo) chiudendogli gli occhietti. E poi a mettersi in moto a Foggia è stata la macchina dei soccorsi e dei servizi sociali, che la domenica fa acqua da tutte le parti. Anche nella Puglia virtuosa che pure, da anni, conta su un progetto pionieristico di intervento che va sotto il nome di Giada (Gruppo interdisciplinare assistenza donne e bambini abusati), una rete nata al Policlinico di Bari ma ormai operativa in tutta la regione che si fa carico immediatamente di questi casi: «Ci siamo allertati subito – spiega Maria Grazia Foschino Barbaro, che di Giada è stata la mente e il braccio fino a un anno fa e che ora si occupa del Coordinamento regionale della rete dei servizi per il contrasto alla violenza sull’infanzia –. Abbiamo cercato il nostro referente all’ospedale di Foggia per seguire la madre e i servizi per occuparci del bambino, con qualche difficoltà». Da domenica è stato un rincorrersi di telefonate, colloqui, ricerche.
Il Centro S.o.s. (Sostegno orfani speciali) nato recentemente a Torino – Centro S.o.s.
Tra assenza per ferie o per turni e personale al lumicino negli uffici preposti, soltanto lunedì sera l’intervento su Matteo ha cominciato a prendere forma: «Il piccolo è stato affidato a uno zio, ma il tribunale sta effettuando tutte le verifiche del caso. Va stabilito chi è, se può prendersene cura e come. Va accertato anche il volere della madre, che oltre ad essere in ospedale gravemente ferita deve elaborare ciò che è successo alla figlia maggiore, Gessica». Che per la vita di sua mamma ha dato la sua.
L’obiettivo è salvare Matteo almeno, e da subito. Dargli una casa in attesa che la sua mamma si rimetta in piedi, un supporto psicologico, coordinarsi con la sua scuola per capire come e quando reinserirlo nella quotidianità a cui è stato strappato improvvisamente. «La nostra fortuna – spiega ancora Foschino Barbaro – è che abbiamo il personale specializzato e i fondi per garantire questo percorso: Giada è stato il punto di partenza per il progetto Respiro, che fa parte (per le regioni del Sud, ndr) dei 4 selezionati dalla Fondazione Con i bambini nell’ambito dell’iniziativa “A braccia aperte” pensata proprio per a favore degli orfani di crimini domestici e femminicidio e su cui sono stati i investiti complessivamente 10 milioni di euro». Tre sono toccati a Respiro, cioè al Meridione, anche se negli ultimi due mesi solo nel Foggiano i femminicidi sono stati altri due, con 7 orfani, di cui tre poco più che bambini: «E questi percorsi di aiuto si sommano ai precedenti e a quelli nuovi, durano anni, vanno offerti anche alle scuole, ai compagni di classe, alle famiglie, occorre investire in formazione e aggiornamento del personale. Il bisogno è sterminato». E parliamo solo della Puglia.
Fondi e professionalità, insomma, non bastano. Anche perché non arrivano – se non saltuariamente, e parzialmente visto il problema dei dati di cui si parlava poco fa – dallo Stato: «La triste verità è che orfani, i bimbi come Matteo, lo sono infatti soprattutto dello Stato e delle istituzioni – sottolinea Patrizia Schiarizza, presidente dell’associazione Il Giardino segreto, referente per lo stesso progetto di Con i bambini per il Centro Italia, che si chiama Airone –. Siamo sempre noi, come associazioni, che ci mettiamo in allerta quando apprendiamo di un femminicidio sul nostro territorio, noi che ricostruiamo se ci sono figli coinvolti e se sono minori, noi che ci mettiamo in contatto con le questure, i tribunali, i servizi sociali». L’appello, perché la storia di Matteo non sia solo l’ultima a fare notizia sulle prime pagine dei giornali e l’ennesima a scomparire, è che sugli orfani e i bambini vittime di violenza assistita («un termine insopportabile, perché assistere a una violenza non è meno che subirla, anzi» rimarca Schiarizza) la politica decida una volta per tutte di intervenire. Non solo a parole, non solo con le Commissioni di inchiesta come quella pronta già di nuovo a insediarsi, «ma nei fatti».
Viviana Daloiso ( Avvenire.it)